«All’interno di una visione del mondo guidata dal dominio della ragione, che scalzava l’antica percezione magica dell’esistenza più vicina alle donne, cominciò a insinuarsi il sospetto che i saperi femminili si alimentassero di dottrine occulte, di pratiche esoteriche in grado di sovvertire l’ordine naturale delle cose».
Questa la chiave, l’incipit, per comprendere “Medichesse. La vocazione femminile alla cura” scritto da Erika Maderna e pubblicato da Aboca. Una attenta analisi storica per trovare risposte alle domande: perché tanto efferato accanimento e persecuzione nei confronti delle donne che conoscevano la botanica, la medicina e la fitoterapia? Quando e perché cominciò la caccia alle streghe?
L’autrice sfata la convinzione che le radici del fenomeno siano da rintracciare nel Medioevo, è necessario andare molto più indietro nel tempo. Questa scelta risulta interessante perché, negli ultimi tempi, sono diverse le studiose che concentrano l’attenzione su di un’epoca alla quale ci hanno insegnato a guardare come buia, fredda e priva di ogni barlume di vivacità, il Medioevo nei libri scolastici appare più piatto della pianura padana, una immota landa desolata in cui per secoli nulla accade, solo freddo, tornei, giostre, arretratezza, pestilenze e qualche menestrello.
Guardiamo, dunque, a tempi più remoti per trovare le ragioni che alimentarono la criminale caccia alle streghe. Bisogna volgere lo sguardo verso l’epoca paleolitica quando, nel bacino del Mediterraneo, si venerava la dea madre Potnia, la divinità che sovraintendeva al ciclo della vita e della morte di tutti i regni viventi.
Il suo culto perdurò fino a quando, in un periodo compreso tra il III e il I millennio a. C., gli invasori euroasiatici tracimarono nell’area mediterranea. La loro struttura sociale, quella che imposero, si fondava sul patriarcato e pertanto non c’era posto per una dea madre, da quel momento si generò una dicotomia che, nei millenni a venire, restringerà sempre più il campo d’azione delle donne.
Nell’antico Egitto e nella Roma imperiale le aristocratiche allestivano un gabinetto personale per la produzione di cosmetici, conoscevano e manipolavano le erbe e le sostanze basiche per la preparazione di unguenti e rimedi a fini estetici e medicamentosi. In queste conoscenze e abilità il cristianesimo avanzante avvertì un pericolo: le donne erano lo strumento del demonio e come tali improntavano il loro agire al maleficio, le loro azioni erano sospette e inficiate dal peccato.
La religione cristiana vedeva di mal occhio l’intervento delle levatrici che con erbe e pozioni alleviavano il dolore delle partorienti poiché con il peccato originale la donna fu condannata a tale sorte. Le levatrici erano viste con sospetto perché intervenivano in un ambito, quello della generazione, di esclusiva competenza di Dio.
Del resto già in epoca greca, con Medea e Circe, si era avviato il processo di delegittimazione del sapere femminile derubricandolo da conoscenza medica e scientifica a magia, l’ambito razionale veniva riservato all’esclusivo appannaggio maschile mentre, alle donne, fu lasciato quello magico, emotivo e irrazionale.
Gli uomini sistematizzarono, codificarono e trasmisero per iscritto il sapere mentre le donne furono costrette a nascondere le loro conoscenze esercitandole e tramandandole, oralmente, in via clandestina. In una tale spartizione dello spazio sociale come poterono le donne esercitare le conoscenze mediche? In tre modi: illegalmente e in clandestinità, tollerate dalla legge quando parenti di medici uomini e legalmente autorizzate se operanti all’interno di spazi conventuali.
A monache e badesse era consentito coltivare le erbe, manipolarle ed esercitare un potere precluso alle loro simili che vivevano nel mondo secolare: «In quel Medioevo impropriamente considerato sinonimo di oscurantesimo, una badessa poteva di fatto accentrare nella propria persona un potere di giurisdizione del tutto paragonabile a quello di un signore feudale. Possiamo dunque affermare che la dimensione monastica ha rappresentato una fortezza del potere politico femminile, uno “spazio straordinario” foriero di opportunità insperate».
Ildegarda di Bingen è un fulgido esempio di una mente brillante libera di esprimersi, se pur impregnata della logica del tempo secondo la quale la donna era, per le cose materiali, una fragile creatura subietta all’uomo rivendicava per le cose che riguardano l’intelletto e la dignità la parità della donna con gli uomini.
Filosofa, musicista, scrittrice e medica insegnava alle consorelle a non negare la propria femminilità. Di più affermava che la sessualità e il piacere femminile, quale espressione corporea fisiologica, concorrono insieme con la cura dell’anima al benessere, la fisicità non è da intendersi come peccaminosa.
A lei va il merito di aver inteso la medicina in ottica di genere distinguendo tra caratteristiche maschili e femminili. Ma – viene da domandarsi – chi fu la prima medichessa?
L’autrice ci presenta Merit Ptha vissuta nel 2700 avanti Cristo e dopo di lei tante altre colmando l’ignoranza circa la vita delle molte donne che esercitarono la professione medica nel corso dei secoli, scopriamo dove e quando vissero quelle di cui è rimasta traccia e quali testi scientifici scrissero.
Il più antico, “Sulle malattie delle donne”, risale all’epoca bizantina e fu scritto da Metrodora. Ci furono poi le mulieres salernitanae della famosa scuola medica di Salerno e le altre medichesse sparse nei diversi luoghi della nostra penisola dove, a differenza delle realtà confinanti – come la Francia – alle donne non fu mai vietata in modo esplicito la frequentazione delle università: «Dall’archivio Angioino emergono i nomi di ben ventiquattro chirurghe operanti a Napoli tra il 1273 e il 1410, alcune delle quali in possesso di una specifica licenza relativa alla chirurgia delle patologie femminili».
Le donne, come documentato, continuarono a esercitare il loro sapere alla luce del sole e – quando vietato – lo fecero in segreto. Alla fine del XV secolo la caccia alle streghe divampò, nel 1486 fu pubblicato “Il martello delle streghe” il testo di due frati domenicani volto a sradicare la stregoneria praticata dalle donne.
Tante, troppe, furono le donne arse sul rogo per le loro conoscenze, abilità e competenze fitoterapiche e mediche o, soltanto, per la loro ribellione a un modello sociale che le opprimeva e costringeva a scelte ritenute inaccettabili.
In una lettura storica del mondo indoeuropeo si scorge una matrice comune: il culto di divinità femminili che dispensavano cure attraverso l’operato di sacerdotesse depositarie del sapere farmaceutico. Avveniva in Mesopotamia, in Egitto e a Roma.
Alle vergini vestali erano riconosciuti diritti e il godimento di privilegi negati alle altre donne, il loro voto di castità le consacrava ponendole al di sopra di quella legge che prevedeva la potestà maschile su madri, sorelle, mogli e figlie.
Procedendo nella lettura ne troviamo esempio nella la conferma del modus agendi del cristianesimo basato sulla sovrapposizione al paganesimo, la nuova religione non si limitò ad utilizzare le strutture materiali e immateriali preesistenti – templi e festività – ma si spinse oltre recuperando il culto della divinità femminile riproposto nella figura virginale di Maria.
L’autrice ci accompagna verso la conclusione del viaggio soffermandosi sull’opus mulierum ovvero l’alchimia: «[…] l’alchimia, esattamente come la medicina, con grande probabilità venne esercitata dalle donne per lo più nell’anonimato, ma fu certamente un’attività vivace e diffusa. In ogni modo, le presenze muliebri in questa antica arte sono ben attestate dalla tradizione ufficiale e sembrano essere state significative fin dagli inizi».
Dalla regina di Saba, Semiramide e Cleopatra a Caterina Riario Sforza conosciamo una galleria di donne di potere che coltivò l’interesse scientifico. Giunte alla fine della lettura ci si ritrova ricche di spunti di riflessioni, interessanti informazioni, dati documentati e nuovi modelli di ispirazione conosciuti attraverso uno stile narrativo fluido e godibile accompagnato da un elegante e bel corredo iconografico. Un libro ben scritto e ben confezionato.
©Riproduzione riservata
IL LIBRO
Erika Maderna
Medichesse. La vocazione femminile alla cura,
Aboca
Pagine 205
euro 28
L’AUTRICE
Erika Maderna, laureata in Lettere classiche all’Università degli Studi di Pavia, vive a Grosseto. Scrive articoli e saggi di cultura classica, collaborando con diverse testate, ed è spesso chiamata ad intervenire in convegni universitari. Per Aboca Edizioni, ha approfondito due principali filoni di ricerca: il primo, relativo ai simboli e alle mitologie botaniche, mentre il secondo ripercorre gli antichi saperi delle donne in medicina, dalle figure dell’immaginario alla storia. Per Aboca Edizioni ha pubblicato: Aromi sacri, fragranze profane. Simboli, mitologie e passioni profumatorie nel mondo antico (2009), Medichesse. La vocazione femminile alla cura (2012), Le mani degli dèi. Mitologie e simboli delle piante officinali nel mito greco (2016), Per virtù d’erbe e d’incanti. La medicina delle streghe (2018) e Con grazia di tocco e di parola. La medicina delle sante (2019).
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