Per gentile concessione dell’artista: in pagina, immagini
di Giuseppe Lucio Labriola e delle sue opere

Feroce e ipocrita. Questa umanità perduta. Che si manifesta indifferente e crudele anche di fronte alla morte. E mostra il suo lato peggiore proprio durante la pandemia da Covid. Napoli inclusa. Nella città tollerante e multiculturale, non si esita a filmare il corpo senza vita di un paziente mentre muore in bagno e a farlo scorrere sui social. Chi lo ha fatto dice di aver compiuto un gesto di consapevole denuncia. Intanto, le immagini diventano virali, rilanciate da operatori della comunicazione che se ne infischiano della dignità e del vissuto della persona abbandonata a se stessa e soffocata dal virus.


Sintesi dell’incomunicabilità in una bolla virtuale, dove i sentimenti sono stracciati dall’egoismo e l’odio crea la differenza degli schieramenti. Un pianeta degli anni 2000 che anticipa l’avvenire nella maniera peggiore.
Ma in quel futuro remoto, c’è qualcuno che ormai vi passeggia da anni, esploratore di un’archeologia umana, tra volti non finiti e corpi costruiti con materiali riciclati.
Giuseppe Labriola, nato nel 1972 sotto il segno dei Pesci e cresciuto nel popolare quartiere napoletano di Porta Capuana dove la città che custodisce ancora, oltre l’antico tribunale, la cinquecentesca chiesa di Santa Caterina a Formiello e il chiostro restaurato e recuperato, da qualche anno, come centro culturale dalla Fondazione Made in Cloister. Qui c’è il suo atelier, un angolo minimalista di ordine produttivo e lucidità estetica, incuneato in un palazzo logorato dai segni del tempo.
Giuseppe diventa Lucio non appena viene al mondo: suo padre, cattolico convinto, che ha avuto un problema agli occhi ma non ha mai perso la fede nella protettrice della vista, lo chiama così per grazia ricevuta dalla vergine santa, estendendo l’abitudine in famiglia, malgrado non ci sia più il tempo di cambiargli il nome all’anagrafe.
Lucio, bambino solitario, viaggia oltre la realtà: i suoi alberi disegnati camminano e i film di fantascienza lo proiettano in un universo a tratti spaventoso perché sconosciuto, occupato da inquietanti extraterrestri. Mentre la passione dell’arte si dilata, passando per l’istituto d’arte Filippo Palizzi e poi per l’Accademia.
Dopo la sua formazione in pittura, però, il cammino è iperrealista. Lucio lavora sui colori e sulle forme con gli scarabei che dipinge nel 1997. I suoi insetti invadono la tela e gli suggeriscono un nickname: Lucio Ddt Art .
Il ddt è un insetticida utilizzato durante gli anni ’40 e ’50: lo usano anche gli alleati durante il secondo conflitto mondiale contro la malaria. Tanto diffuso che presto svela la sua tossicità.
L’idea è potente. Sostenuta anche dall’esperienza del servizio militare a Mantova, dove partecipa a un corso di addestramento nel nucleo batteriologico chimico. E l’artista abbina lo pseudonimo alla cavalletta, simbolo di chi resiste corazzato e attrezzato alle catastrofi, esemplare di una specie che si muove come un esercito.
La creatività si contrappone al veleno, antidoto di un messaggio profetico: annuncia che l’umanità si è disumanizzata. E quello che verrà sarà una catastrofe costellata di relitti che avanzano con maschere antigas e scafandri. Persino l’infanzia e gli animali fanno parte di questa desolazione: la vita flagellata da inquinamento, esplosione nucleare, manipolazione genetica, prevaricazione, decadenza delle relazioni personali.
Non c’è quasi più distinzione di sesso: le figure prendono forme dimezzate, avanzano meccanicamente, non hanno nulla dei fedeli replicanti alla Blade Runner, il film di Ridley Scott, dove domina uno scattante e fascinoso poliziotto, interpretato da Harrison Ford.
Androidi spaventosi, mostri con pallide sembianze delle loro radici, alterate e bruciate da un’apocalisse già avvenuta. E la mente corre a Gregor Samsa il commesso viaggiatore, preciso e metodico, che nel racconto La metamorfosi lo scrittore praghese Franz Kafka rende protagonista di una sorprendente trasformazione.

Gregor si sveglia come gigantesco scarafaggio: all’inizio non se ne rende conto, ma avverte che c’è qualcosa che non va. Non riesce a alzarsi dal letto perché deve necessariamente rotolare: è l’inizio di una sempre più complicata convivenza familiare con genitori e sorella più giovane che lo farà finire nella spazzatura.
I rapporti denudati, l’intimità annullata, l’identità schiacciata: ma i personaggi di Lucio hanno un ruolo. Collocati in teche di vetro, sono pronti a essere esposti in spazi metropolitani, o in un museo come tracce di una civiltà sepolta: testimonianze di un mondo capace di autodistruggersi. Da porre accanto alle presenze ritrovate negli scavi delle città vesuviane. Reperti di ieri e domani.
Tra le sue creature da incubo, c’è anche un residuo di gentilezza nella rivisitazione della Dama con l’ermellino di Leonardo che lui considera il suo mentore.


Anche lei ha il volto mascherato e irriconoscibile; in un’altra copia, indossa addirittura il burqa che cancella la sua femminilità. Qui e là segni sparsi, come quello di una croce. Un grido di dolore nel mondo. Dove tutti osservano, ma tacciono.
L’artista urla, invece, a modo suo, attraverso grandi sculture dalla linea infagottata e piedi ancorati a terra da scarpe pesanti, robot in (tutto) bianco o nero realizzati con pezzi scartati dal consumismo tecnologico.
Attenzione, avverte con i suoi paesaggi desertificati dai predatori della natura, abbiamo bruciato i nostri sogni. Non rimane che un movimento informe e oscuro. L’anima è annegata. Nella nebbia di avidità e violenza. Solo l’arte potrà curarla.
©Riproduzione riservata 




L’AUTORE
Nato a Napoli il 7 marzo 1972, continua a lavorare nella sua città d’origine, con lo sguardo spalancato sul mondo. Tra le sue mostre recenti, poco prima che scattasse il lockdown di marzo, la personale Portrash a cura di Valerio Dehò alla Bottega Dingi nell’ambito di Art City Bologna. Ed è stato tra i protagonisti delle attività online promosse dall’assessorato alla cultura del Comune di Napoli , nella prima emergenza sanitaria causata dal coronavirus, con la proiezione del video #ioresto a casa a cura di Franco Riccardo e Rita Fusco. Ha partecipato all’Art performing festival nel 2019 al Pan (Palazzo delle arti Napoli) e nello stesso anno i suoi scenari surreali sono approdati nella collettiva Human essenze alla Galleria Mediterranea di Napoli.



 


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