Oggi prendiamoUn caffè con … Ernesto Paolozzi”, che saluto e ringrazio. Così cominciamo un ciclo di incontri per parlare di autonomia differenziata e dei rapporti socio-economici tra Nord e Sud del paese.

Qui sopra, Ernesto Paolozzi. In alto, il tricolore, simbolo dell'unità italiana,
Qui sopra, Ernesto Paolozzi. In alto, il tricolore, simbolo dell’unità italiana,

Ernesto Paolozzi insegna Storia della Filosofia Contemporanea al Suor Orsola Benincasa, opinionista, scrittore, autore del volume “Il liberalismo democratico e la questione meridionale”, collaboratore della Rivista “Nord e Sud” di Francesco Compagna, ha firmato decine di articoli sul Meridionalismo. Se guardo alla tua formazione culturale ti posso etichettare come un “liberale crociano”?
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Certamente. Ho provato a rileggere il liberalismo di Croce in senso metodologico, ossia come una visione del mondo e non come un insieme di dottrine particolari (liberismo economico, Stato di diritto, etc.), come del resto Croce autorizza parlando di liberalismo metapolitico. Questa prospettiva consente di dialogare, ad esempio, con il socialismo nella sua versione non totalitaria».
Nel tuo ultimo libro “Diseguali – Il lato oscuro del lavoro” affronti il tema del lavoro in una società che cambia, le nuove tecnologie, uno sguardo alle battaglie sindacali del futuro, individuando una sorta di “direzione opposta”. Qual è?
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In questa prospettiva nasce il libro sul lavoro. La dignità del lavoro è un valore anche per i liberali. Almeno così dovrebbe essere a mio avviso. La tecnologia può, ad esempio, liberare dal lavoro inteso come fatica, come lavoro sfruttato, oppure può distruggerlo provocando un’immane tragedia. Sta alla politica governare il fenomeno secondo i principi della libertà e della giustizia sociale. Per ricordare Marx, la tecnologia crea una sorta di plusvalore che va redistribuito in forme nuove. Il sindacato deve affrontare la questione di petto nella consapevolezza che la questione supera i confini di un singolo Paese. Sogno un sindacato europeo sempre più forte. Almeno europeo. La Fiat (oggi Fca) è italiana, francese e americana. E i sindacati? Esiste un’organizzazione mondiale dei lavoratori in grado di fronteggiare le scelte del Capitale?».
Vorrei partire da due esempi della storia politica recente: Francesco Cossiga (da Capo dello Stato) nel discorso alle Camere del 1991 argomentava sulla sovranità popolare, sostenendo come, in nome di essa, si potesse cambiare la Costituzione, tracciando lui l’iter che, in verità, non trovava alcun riscontro istituzionale. Lo stesso Silvio Berlusconi (da presidente del Consiglio), sotto l’assedio dei magistrati, teorizzava che lui era il “custode” della sovranità popolare, mentre i giudici non erano legittimati a perseguirlo secondo la legge. Oggi, i tre Governatori di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ripropongono, sia pure su un piano diverso, un concetto distorto di sovranità popolare. Autonomia a discapito del Sud, ammutinamento del Parlamento, ripartizione della cassa dello Stato a favore del Nord (residuo fiscale). Cioè non vogliono contribuire a stabilire i livelli essenziali di assistenza (LEA), i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e i fabbisogni standard. Insomma, preferiscono liquidare il Mezzogiorno relegandolo a “territorio di scarto”Che ne pensi?
«La questione della sovranità popolare è, oggi, largamente fraintesa. La democrazia senza confini, limiti, si capovolge nel suo contrario. Diventa la dittatura di una minoranza che si presenta come maggioranza attraverso un voto o un clic che generalmente rappresenta solo una piccola parte della popolazione. Ma anche se fosse maggioranza (Tocqueville parla di dittatura della maggioranza), potremmo accettare il principio che qualunque scelta della maggioranza è buona? Potremmo accettare un voto del Parlamento che per preservare la razza italiana proponesse di uccidere tutte le persone bionde? La Costituzione pone dei limiti al popolo, ne garantisce diritti ma pone anche dei limiti. Tutte le Costituzioni. E’ la democrazia liberale che si distingue nettamente dalla democrazia totalitaria. Anzi si oppone ad essa drasticamente. Nel caso dei leghisti il livello è anche più basso, si tratta di furbacchioni che credono di fregarci un po’ di risorse, un po’ di soldi e, soprattutto, di accontentare i militanti che, sotto sotto, sono razzisti. Manca la consapevolezza che alla lunga la sottrazione di risorse al resto d’Italia danneggia l’economia e la pace sociale dell’intero Paese, nord compreso. Ma, forse lo sanno. Se ne fregano dei tempi medi o lunghi, intanto lucrano consensi».
Il concetto di autonomia e decentramento sono intesi dalla Costituzione come “funzioni serventi”, per ampliare la democrazia partecipativa, di prossimità, non certo per restringere il campo democratico, ma per allargarlo. I Governatori del Nord, al contrario, vogliono spaccare l’Italia pur di concretizzare un disegno sovranista, innanzitutto sotto le spinte della Lega che legittima quell’agire. Mai come in questa fase storica l’unità nazionale è seriamente in discussione. Per te questa è ancora un valore o dobbiamo voltare pagina?
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L’Unità è un valore essenziale. L’unità non è soltanto, per così dire, un contratto per utilità economiche, è un’idea che si fonda sui i principi, valori o come altro si vuol dire, di libertà, giustizia, fratellanza o solidarietà. La propaganda leghista alla quale si è aggiunta per comprensibile ripicca una sorta di leghismo meridionale, ha fatto dimenticare alla parte più ignorante del “popolo”, ancorché numerosa, su cosa si fonda, almeno in Italia, l’idea di unità della nazione. Non si tratta di fare la gara fra mozzarella e gorgonzola o rivendicare primati, si tratta di decidere se vogliamo abbandonare l’idea della vera sovranità del popolo italiano fondata sulla libertà, innanzitutto, e via via sulla giustizia, la democrazia, la tolleranza, la civiltà dei rapporti, tutto sommato sull’umanità intesa nel senso più ampio della parola.
Uno dei sofismi più frequenti è quello di mettere sullo stesso piano le critiche al Risorgimento dei Gobetti, dei Gramsci, dei Dorso e quelle dei neoleghisti del nord e del sud. Questi ultimi vogliono tornare indietro al Risorgimento (non è un caso che generalmente votano per partiti e movimenti reazionari o regressivi), mentre gli altri volevano più Risorgimento. Più coraggio nel portare avanti i temi risorgimentali. In questo solco si inserisce il meridionalismo serio, autentico, appassionato ma riflessivo: denunciare i limiti dei governi postunitari che non sono riusciti a compiere, ad attuare completamente gli ideali risorgimentali. Governi centrali e classi politiche meridionali troppo spesso inadempienti. Questo è il vero meridionalismo».
Secondo te, puzza di imbroglio o meno il fatto che questa pretesa autonomia differenziata non parla mai degli aspetti economici, cioè non si dice da nessuna parte quanto tocca al Sud?
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Sì, il che non significa che non si possano trovare forme nuove di autonomismo. Lo stesso regionalismo andrebbe rivisto. L’abolizione del Titolo V è stata una iattura soprattutto per il sud. Si è indebolito il sistema sanitario italiano che era fra i migliori del mondo, per fare un solo esempio. Nel Mezzogiorno hanno conquistato potere satrapi di ogni sorta: una classe politica peggiore anche di quella della prima repubblica che pure non era certo brillante. Io per formazione sono federalista, ma il federalismo nasce per unire conservando alcune diversità. Il separatismo è il contrario. In questo senso per andare oltre l’Unità di Italia si deve proporre un vero, autentico federalismo europeo. Un’Europa meno burocratica e più eticopolitica.
Ecco, anche in questo caso: più Europa e non meno Europa. Non fronteggeremo “l’imperialismo” economico e culturale della Cina senza un Europa forte. Non potremo competere con l’isolazionismo di una certa America, affrontare seriamente la questione africana e quella indiana che si affaccia alla porta della storia. L’Unità dell’Europa come quella italiana è fondata su valori forti di civiltà e convenienze economiche che variano nel tempo. Bisogna riuscire a tenere insieme i due livelli. Ritrovare l’orgoglio di essere napoletani, italiani e europei nel nome di comuni ideali, nella consapevolezza che solo in nome di quegli ideali si possono fronteggiare i concorrenti i quali possono diventare avversari e, prima o poi, nemici».
Il legislatore italiano, già da qualche decennio (Governo Ciampi), ha stabilito la cosiddetta clausola del 34%. Ovvero il 34% del finanziamento statale verso le Regioni e gli enti locali “deve” essere dato al SUD, poiché in questa parte del paese vive esattamente quella percentuale di popolazione. Un concetto semplice quanto rivoluzionario. Ma non si è mai voluto attuare, tanto da destra quanto da sinistra. A tuo avviso, partire dal rispetto di questa volontà migliorerebbe la condizione di sviluppo del Mezzogiorno?
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La clausola Ciampi è un punto di partenza. Così come mi trovi tendenzialmente d’accordo con l’intervento dello Stato nel Mezzogiorno. Voglio ricordare che nel dopoguerra il liberale Guido Cortese, discepolo di Croce, grande avvocato, presentò in Parlamento un emendamento secondo il quale l’IRI avrebbe dovuto investire il quaranta per cento dei suoi investimenti nel Sud. L’emendamento fu approvato col voto di comunisti e democristiani. Mai messo in opera come la clausola Ciampi. Cortese e Ciampi, due liberali non esclusivamente liberisti. Sì, è necessario ripensare l’intervento del pubblico in economia. Non solo per il Sud».
Le rappresentanze istituzionali espresse dal Sud negli ultimi decenni, secondo il mio punto di vista, sono parte del problema e non della soluzione. Il Mezzogiorno piuttosto che esprimere (e promuovere) classe dirigente ha prodotto “ceto politico”, mi è sembrato che quest’ultimi hanno inteso sacrificare l’interesse generale, hanno cioè rinunciato a far crescere e elevare le comunità di donne e di uomini amministrati. Secondo te, questi politici hanno paura che il nord porti via tutta la cassa dello Stato (1), non sono all’altezza (2) oppure gli sta bene così (3)?
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Fra i problemi di fondo del Mezzogiorno quello della classe politica o ceto politico è fra i più gravi. Direi dell’intera classe dirigente. Il dramma consiste nel fatto che negli ultimi 30 anni è degenerata anche quella del resto d’Italia. Così accanto ad un’irrisolta questione meridionale possiamo collocare una recente questione settentrionale. La nostra condizione di meridionali si potrebbe definire di decadenza nella decadenza. Io sono, come forse sai, un gran tifoso del calcio e ho anche giocato tanto, veramente tanto. Ti dico che se si sospendesse il campionato italiano in favore di un campionato europeo sarebbe un piccolo ma importante passo avanti. Forse si attenuerebbero i toni del tifo degli ultras. Diminuirebbero i cori beceri che alimentano l’odio, fanno perdere lucidità anche a persone normalmente riflessive e accorte. Non è una battuta. Se non si vuole essere politologi astratti, bisogna tenere presente le condizioni psicologiche, individuali e collettive, delle persone in carne e ossa. Non si può auspicare la fine dell’Unità d’Italia per un rigore negato. E’ umano quanto stupido. Non facciamoci guidare dalle curve ma dalle donne e dagli uomini di buona volontà. Si parte dai sentimenti e poi si elaborano politiche. Insomma, viva Napoli, viva l’Italia e, perché no, viva l’Europa».
Bene, ringrazio vivamente Ernesto Paolozzi, ritornerò sull’argomento perché credo meriti rispetto e, francamente, anche perché questa discussione non penso debba essere appannaggio esclusivo dei quotidiani cittadini e di una certa “borghesia illuminata”.
Questi incontri vogliono dimostrare che esiste anche un altro punto di vista, proposto non solo dagli “addetti ai lavori” ma anche da chi rappresenta i territori, ovvero dare voce a chi dovrà sopportare materialmente quel quadro di scelte che cambieranno la fisionomia istituzionale del nostro paese e nello specifico i rapporti tra le due macroaree della penisola.
Parlare di autonomia differenziata non è solo un problema di elaborazione di linea politica, ma anche e soprattutto di creare una coscienza sulle sue immediate ricadute.
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