Da una giovanissima napoletana, Valeria Marchese, riceviamo e pubblichiamo un percorso tra le insidie di un’Italia contagiata da un virus peggiore del Covid, quello del razzismo Visto da giovani che vivono nel nostro Paese.

di VALERIA MARCHESE
Il triste fenomeno del razzismo nell’Italia del 2021 sembra aver tutt’altra intenzione che quella d’arrestarsi. Con circa sette casi di discriminazioni al giorno, il 69% dei motivi di aggressioni (verbali e non) riguarda ragioni legate all’etnia e al colore della pelle.
Eppure, quasi alla stessa andatura con la quale crescono i casi di violenza e mancanza di integrazione, il numero degli sbarchi, anche in periodo di Covid, non accenna pause.
Ma come si vive davvero nell’Italia razzista? Qual è la ‘brutta’ faccia del Bel Paese?
Ho intervistato alcuni giovani vittime di razzismo: molti eventi in comune, le medesime e sconclusionate giustificazioni per la violenza, tante insicurezze nell’adolescenza. Ognuno di loro però, ne è uscito vincitore e sono un modello di forza ed esempio per tutti noi.
Francesca, 20 anni, studentessa di pedagogia, nata e cresciuta in Italia da famiglia mista, sua madre è somala.
Josef, 21 anni, studente di biotecnologie, nato e cresciuto in Italia da famiglia mista, suo padre è tunisino.
Leidiana, 17 anni, originaria del Brasile.
Partiamo da Tanmi, 29 anni. Il suo percorso è stato un po’ tortuoso, l’Italia è la meta finale di un viaggio inaspettato, difficile e aspro, che mi ha raccontato al telefono:
Tanmi vive in Italia da quattro anni e ha lasciato il Camerùn, il suo paese di origine, la notte del 24 aprile 2016 per iniziarsi a spostare in vari paesi del Nord Africa.
Il suo obiettivo era quello di stabilirsi in Algeria, ma vi resterà solamente per due mesi e mezzo, alternando il soggiorno con qualche spostamento in Niger.
Tanmi attraversa anche il deserto: «E’ stato un momento molto pericoloso e difficile, ho seriamente avuto paura e mi sono rifugiato molto nella religione- mi dice al telefono- Abbiamo fatto metà del viaggio in auto e poi l’altra metà a piedi, camminando per più di dieci ora di fila».
Il viaggio nel deserto ha una destinazione ben precisa: la Libia, che però non è più la Libia di prima, spiega Tanmi. «Quando sono partito non conoscevo la situazione politica libica, è un paese devastato da tre governi e con una guerra civile in corso».
Lui e i suoi amici vengono fatti prigionieri e tenuti in carcere per quattro mesi. «Appena arrivati, ci utilizzano come manodopera, siamo stati venduti come schiavi, molti vengono eliminati con armi da fuoco, io ho perso molte persone accanto a me: nella stanza attigua alla mia si trovava una donna che è morta e io ho assistito alla scena. Sono stato fortunato perché lì con me c’era un ragazzo che nascondeva un telefono e ha potuto chiamare un amico che conosceva il luogo ed ha potuto aiutarci a uscirne. Siamo stati liberati la notte del 13 dicembre e sono subito partito per l’Italia, abbiamo fatto 15 ore in mare, tutte sui barconi. La OSS mediterranea spagnola ci ha salvato verso le quattro del mattino, abbiamo fatto due giorni in barca e poi siamo arrivati a Palermo».
La storia di Tanmi purtroppo è la storia di molti che lasciano il proprio paese e la propria famiglia in cerca di un futuro migliore, l’Italia magari non è neanche tra le loro destinazioni, i più sono diretti in Francia dove li attende qualche parente o amico già emigrato e dove conoscono già la lingua. Ecco come si raccontano.

1)Per quali motivo gli altri ti considerano “straniero(parli poco la lingua, colore della pelle diverso, sei stato adottato, famiglia mista…)?
Josef: «L’accezione di “straniero” e “diverso” ha iniziato ad avere più valenza nel periodo liceale quando lo sfottò velato tramutava in offesa o modo per bersagliare me e la cultura di mio padre. Le frasi più frequenti erano: Ma vi lavate? Torna al tuo paese… Nonostante io sia italiano a tutti gli effetti, la mentalità di paese, o meglio, mentalità chiusa e restia ai cambiamenti, inizialmente mi faceva sentire diverso, la persona sbagliata in quel momento che vivevo».
Francesca: «Il motivo per il quale gli altri mi identificano come “diversa” o “straniera” è semplicemente legato a un fattore estetico, ovvero il colore della mia pelle, essendo io mulatta. Le persone sono solite basarsi molto sui pregiudizi, infatti quando mi sentono parlare perfettamente italiano restano stupiti, mentre invece io sono nata e cresciuta qui».
2)A chi ti sei rivolto per avere sostegno nei momenti difficili?
Josef: «Per un teenager, è molto difficile rivolgersi a persone o genitori per cercare di risolvere la situazione, per paura di essere denigrato, o per evitare prese in giro ulteriori all’interno delle strutture scolastiche.
Nel periodo delle scuole medie e del liceo non ho mai avuto il coraggio di
chiedere aiuto, ma ho cercato di reagire di petto anche se molte volte venivo isolato dagli altri ragazzi».
Leidiana: «A mia madre, mi è sempre vicina.
Francesca: «A 20 anni ho imparato sia a ignorare che a combattere le varie forme di razzismo. Ma se mai avessi bisogno di un supporto mi confronterei con mia sorella, perché condividiamo le stesse esperienze».
Tanmi: «Sono cristiano cattolico e quando sono arrivato ad Itri, la città in cui attualmente vivo, ricordo che era un venerdì e io il sabato sentivo subito la necessità di andare in chiesa e di pregare. Volevo pregare perché ero salvo, ero vivo. Molti non ce la fanno. Il prete della parrocchia di Itri in quel periodo stava organizzando un coro africano e mi sono rivolto a lui, mi ha messo in contatto con la responsabile dell’Azione Cattolica di Itri e ho passato molto tempo con loro, tra persone che non parlavano francese, inglese, e dovevo adattarmi. Ho trovato molto aiuto dell’ex presidentessa dell’AC di Itri, nella responsabile e nel parroco, mi chiamano sempre per chiedermi di cosa ho bisogno, è stato fondamentale per me quando sono
arrivato in Italia».
3)E’ mai accaduto che a compiere questi atti/battutine fosse qualcuno che esercitava un’influenza su di te e su persone intorno a te, spingendole a comportarsi allo stesso modo?
Josef: «Purtroppo sì, altri ragazzi per pavoneggiarsi assecondavano ragazzi che disprezzavano me con battutine razziste e xenofobe».
Francesca: «E’ capitato in prima liceo quando il “tipetto” della situazione con vari commenti ha innescato comportamenti sgradevoli nei miei confronti con l’intera classe».
Tanmi: «Mi è successo spesso sul mio posto di lavoro, un ristorante. E, avendo contatti con persone spesso mi sono ritrovato a svolgere compiti che non erano miei, mentre i miei colleghi bianchi si riposavano o andavano in pausa, io ero caricato del doppio del lavoro. Non potevo lamentarmi, avevo bisogno di lavorare e di fare esperienza, la gavetta appunto. Ora ho maturato le giuste conoscenze ed esperienze e dall’estate prossima farò valere la mia opinione e il mio lavoro».
4) Cosa ti piace di più del tuo paese di origine?
Josef: «Premetto che a causa degli studi e di impegni generali, non ho potuto visitare e vivere a pieno la Tunisia. Ma sin da piccolo ciò che permane nella mia mente, sono i cibi, le usanze molto diverse da quelle italiane, dovute anche dalla religione islamica che si professa».
Leidiana: «Il clima più di tutto, è sempre estate e mi si riscalda il cuore!
Tanmi: «Adoro la cultura, il cibo, l’ambiente, ogni cosa. L’Italia è completamente diversa. Il modo di vivere è diverso, così come anche quello di cucinare: è semplice, buono e soprattutto veloce.
Da noi in Camerùn è impensabile preparare un piatto in venti minuti, ci vuole minimo un’ora o due».
5)Cosa ti piace di più dell’Italia?
Leidiana: «Il cibo principalmente ma in realtà un po’ tutto, perché sono cresciuta qui e ho vissuto molte più cose rispetto al mio paese di origine».
Tanmi: «La bellezza dei luoghi. Mentre ero in Camerùn sognavo visitare il Vaticano: sono stato lì ed è stata una bellissima esperienza, ho anche stretto la mano al papa. La sensazione è stata come quella di rivedere un vecchio amico e non mi sono sentito agitato. Sembra strano ma era come se ci conoscessimo sempre. Un’altra cosa che apprezzo dell’Italia sono le leggi e gli aiuti verso i cittadini in difficoltà che non hanno una fissa dimora e un lavoro stabile. Da noi se non lavori non mangi, non c’è nessuno che ti viene incontro».

Una barca con migranti fotografata
da Gerd Altmann. Tutte le immagini in pagina sono tratte da Pixabay 


6)Cosa consiglieresti ad un ragazzo che sta subendo atti di razzismo?
Leidiana: «Di non dar peso alle parole degli altri. Al di là del razzismo, le persone sentiranno sempre la necessità di giudicare, lo facciamo un po’ tutti, anche se inconsciamente. Impara ad apprezzare la tua bellezza interiore ed esteriore».
Francesca: «Se questi atti di razzismo sono particolarmente gravi consiglierei di parlarne con persone che possono prendere provvedimenti e gestire meglio la situazione, ma se sono critiche provenienti da persone ignoranti, è meglio ricercare forza e consapevolezza in se stessi, prendendo coscienza del fatto che determinati gesti sono dettati da pregiudizi, ignoranza e maleducazione. Da piccola a episodi di razzismo non reagivo così: piangevo sempre e sono arrivata al punto di desiderare di essere bianca, mi chiedevo cosa c’era che non andasse in me, se fossi io quella sbagliata. Col passare del tempo ho capito che sono semplicemente diversa, unica, speciale così come sono e nessuno può demolire questa mia convinzione: ho imparato a fregarmene. Nel mio passato ho dato molto spesso peso all’opinione degli altri, arrivando a soffrire anche di disturbi alimentari legati al mio aspetto esteriore, ma non si può vivere la propria vita in costante rapporto e confronto a quella degli altri, soprattutto se queste ultime persone mirano a farci soffrire. Sono contenta che ci siano sempre più persone che cercano di sensibilizzare su questo argomento. Le
situazioni politiche degli ultimi tempi non hanno fatto altri che fomentare odio tra etnie diverse».
Tanmi: «Non devi mai considerare le parole degli altri, prova prenderle come un complimento: se tu mi dici nero per me non è un insulto, mi stai semplicemente descrivendo e ricordando cosa sono e da dove vengo, non posso che andarne più che fiero».
7)Cosa vorresti dire a una persona razzista?
Josef: «Credo che una persona razzista e/o xenofoba abbia questo pensiero su persone straniere o Italo-straniere a causa di una mentalità molto chiusa e poco incline al cambiamento, timorosa di veder mutate le proprie tradizioni».
Leidiana: «Io ho subito da piccola atti di razzismo da parte di quelli che tutti vedevano semplicemente come bambini. Mi vedevano diversa e io mi sentivo effettivamente così, ho passato anni con il peso di questa diversità sulle spalle, ma ora posso solamente riconoscermi nella diversità che mi veniva attribuita: sono fatta così e finalmente posso dire di amarmi con tutte le mie insicurezze. Nessuno mi farà più pesare di essere diversa».

Francesca: «Innanzitutto chiederei il motivo che lo spinge ad essere razzista. Io credo che un motivo principale sia la paura di ciò che è diverso e di ciò che non si conosce. La domanda che dobbiamo porci è: ha davvero così tanta importanza credere in diversi ideali o avere colori della pelle
differenti?
Credo di no. Penso che tutti si debbano impegnare a rispettare la diversità. Non c’è differenza tra un uomo e un altro: esiste solo nel momento in cui la si vuole vedere a ogni costo. Facciamo tutti parte della stessa razza: quella umana. Possono variare le idee, le abitudini, la visione del mondo, ma tutti hanno diritto a una vita dignitosa, essere rispettati e trattati di conseguenza. Il razzismo equivale all’ignoranza, al non saper guardare oltre il proprio naso. Spostandoci, anche di poco, siamo tutti stranieri. Non vorremmo vedere sempre e comunque i nostri diritti rispettati?».
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