«Oggi come non mai la storia dell’Autonomia è storia viva, e rilanciare l’idea-forza del Basic Income contro il lavoro significa rilanciare l’idea di un’altra società. Quella società delle arti e delle scienze superiori che potrà finalmente scrivere sulle sue bandiere: “ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i propri bisogni”» (pg. 112). Con queste parole, Mario Avoletto, storico attivista napoletano, sintetizza il concetto cardine alla base del volume: Gli autonomi- L’Autonomia operaia meridionale, Napoli e la Campania, – Parte seconda (DeriveApprodi, giugno 2022).

In copertina: 1 maggio 2014, manifestazione a Bagnoli [Photo credit: Daniele Maffione]. Sopra: la copertina del libro

Il nuovo volume dell’attesa triologia curata da Antonio Bove e Francesco Festa non ha deluso le aspettative. La trama del libro ritorna sulle vicende dell’Autonomia operaia meridionale, immergendole approfonditamente nel contesto campano.
I due studiosi hanno compiuto un mirabile lavoro di ricostruzione storiografica e indagine giornalistica. La loro opera, notevole per scorrevolezza e accessibilità del linguaggio, trascina il lettore in una sorta di macchina del tempo del conflitto sociale, narrato tramite una time-line in cui si rievoca il ricco e complesso dibatitto dell’Autonomia operaia meridionale.
La struttura del libro è, di fatto, una prosecuzione del primo volume, ma propone uno sguardo più attento alle vicende del movimento nella città di Napoli e nelle altre province campane, passando in rassegna una serie di contributi di notevole pregio. Ciascuno di essi ricostruisce frammenti di questa storia collettiva in un Mezzogiorno squassato da profonde disuguaglianze economiche e sociali.
Ad introdurre il discorso è Raffaele Paura, bandiera delle lotte sociali, che illustra le peculiarità di un movimento di rivolta che nel Sud si fuse con antichi problemi di fasce popolari soffocate dal modernismo capitalista.
L’Autonomia organizzò le rivendicazioni di segmenti sociali disgregati e marginalizzati dalla società borghese, ma anche sottovalutate dalle istanze della sinistra di classe tradizionale, come partiti e sindacati di marca social-comunista. La lotta nelle carceri, l’occupazione delle case, il diritto all’abitare, il movimento dei disoccupati, la rivendicazione del salario garantito e del diritto al non lavoro sono tutte tracce di questa storia.
Gli autonomi così non ingaggiarono soltanto una lotta contro lo Stato unitario – forgiatosi nello sfruttamento del Nord industrializzato verso il Sud colonizzato ed espoliato dalle proprie ricchezze-, ma anche contro il compromesso storico fra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano.
Proprio per questo, ‘O Terremoto del 23 novembre 1980, la cui ricostruzione è stata affidata al contributo di Michele Franco, viene descritto come una sorta di spartiacque nello sviluppo della Campania, delle sue classi dominanti e delle lotte sociali che si animarono a ridosso di quel traumatico evento. Il terremoto spaccò la vita di intere comunità, ma divenne al contempo un’opportunità di profitto per un comitato d’affari che fece del clientelismo, della corruttela, dell’investimento nel cemento la propria bandiera, stringendo una consorteria con camorra e criminalità organizzata.

2022. Presentazione dell’opera in Galleria Principe di Napoli

Gli assi portanti dell’opera curata da Bove e Festa spaziano dal conflitto fra capitale e lavoro – vissuto da segmenti di proletariato urbano o di precariato metropolitano espulsi dal processo produttivo – alla dialettica fra metropoli e aree interne. Cruciale nella genealogia del lavoro è la rottura ideologica con lo sviluppismo alla base della politica del PCI.
Inoltre, l’analisi del rapporto tra Autonomia e femminismo, diviene uno dei punti dirimenti, grazie al notevole contributo di Mariella Toledo: «(…) Non eravamo militanti tristi, ci stavamo riprendendo la vita e lo facevamo anche per tutte quelle che, come le nostre madri, proprio non ci capivano» (pg. 119). Come rammenta l’autrice di questo scritto, nei primi anni Settanta la gestione del movimento studentesco e operaio era tutta maschile – le militanti venivano indicate come “angeli del ciclostile”, mortificandone il contributo sociale e politico – e il femminismo travolse tutto come un’onda d’urto dirompente. In questi termini, viene ricostruito il senso della cosiddetta “doppia militanza” che alcuni gruppi di attiviste praticavano in quegli anni, restando interne alle organizzazioni politiche di provenienza, ma vivendo in modo parallelo e “separatista” il movimento femminista.
Al contributo di Mariella Toledo, fa seguito lo sguardo della ricercatrice Carla Panico, che da una generazione di distanza analizza le lotte di quegli anni con sguardo gramsciano, immergendole nella cornice di una complessa questione meridionale, rifuggendo da stereotipi, letture coloniali ed esotizzanti: «Molte delle categorie classiche, del femminismo italiano come dell’operaismo, non funzionano o non funzionano a pieno se non facciamo lo sforzo – necessariamente collettivo – di rinegoziarle nei luoghi e sui territori. Ciò che dovremmo iniziare a compiere è proprio una ricerca capillare di quelle tracce di scintille di autonomia che da sempre hanno caratterizzato le vite e le lotte delle donne meridionali, e, forse, provare da queste a desumere nuove categorie di analisi che – lo dico con sincerità- ancora non abbiamo» (pg. 132).
Il filo delle lotte dell’Autonomia operaia meridionale si dipana dalla fine degli anni Settanta fino all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, giungendo ai giorni nostri attraverso una variegatura di luoghi e soggettività sociali. Dopo aver trovato un base operativa nel grembo dell’Associazione Risveglio Napoli, la storica realtà creata da Vera Lombardi che con la sua sede costituì il centro di raduno di gran parte della sinistra napoletana, gli autonomi si distinsero per l’animazione di numerose battaglie politiche e sociali: occupazioni di case, scioperi, manifestazioni per l’ambiente, marce antimilitariste, tentativi di estendere il conflitto in ogni dove.
Più volte costretti a riorganizzarsi, anche in seguito alle ondate repressive dello Stato, trovarono prima nel Coordinamento Nazionale Antinucleare Antimperialista, poi nel movimento studentesco della Pantera nodi nevralgici in cui svolgere e rigenerare la loro funzione politica. Grazie al patrimonio di queste esperienze, raccolte nel livello politico del Collettivo comunista napoletano, gli eredi di questa storia riuscirono a dare vita alla stagione dei centri sociali, animando l’occupazione di Officina 99 a Napoli che, in breve tempo, divenne punto di riferimento per le lotte sociali e le realtà di base del variegato panorama metropolitano e meridionale.
Il laboratorio dell’Autonomia ha attraversato anche le aree interne come Nola, Acerra, l’Irpinia, Terra di Lavoro, nonché Salerno – quest’ultima, riassunta in modo egregio dal contributo di Francesco “Franz” Cittadino. In tutte queste realtà, gli autonomi riuscirono a mantenere sempre elevato il loro livello di conflittualità, svolgendo un ruolo di aggregazione di fondamentale importanza in anni in cui, per distruggere la contestazione giovanile, la repressione poliziesca marciava di pari passo con l’introduzione dell’eroina negli ambienti più marginali che la sinistra rivoluzionaria tentava di organizzare.
Gli autonomi – parte seconda risulta essere un lavoro indispensabilie per recuperare fonti d’informazione e testimonianze che avrebbero corso il rischio di rimanere disperse e frammentarie. La lettura di questo testo, intriso del pathos di chi si è rivoltato allo stato di cose presenti, trova probabilmente la sua sintesi storicistica più riuscita nel contributo di Giovanni Iozzoli e Samos Santella, amaramente intitolato: Campania infelix. Il traghettamento degli anni Ottanta, che suona come un ostinato tentativo di non soccombere a una lunga stagione di riflusso dei movimenti sociali.
In attesa del terzo volume, l’epitaffio per questa storia potrebbero essere i versi di Stefano Tassinari nel suo L’amore degli insorti: «E siamo stati insorti, per mille anni o per un solo minuto, correndo dietro a quella particolare forma d’amore che “solo noi sappiamo pronunciare”».
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