In pagina, tre immagini della campagna contro il linguaggio sessista. Ce ne parla su questo portale la presidente di EnterprisinGirls, Francesca Vitelli

Cosa significa linguaggio sessista? L’associazione EnterprisinGirls – network nazionale di imprenditrici, libere professioniste e donne del Terzo settore – nata sei anni fa (www.enterprisingirls.it) lancia una campagna di comunicazione per riflettere sul tema (https://enterprisingirls.it/il-sessismo-nella-lingua-italiana-campagna-di-comunicazione.htm).
Organizzata in collaborazione con Anna Lisa Somma, co-curatrice del libro “Il sessimo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini”, la comunicazione dal sito e dai social pone l’attenzione sul modo in cui scegliamo le parole per descrivere la realtà.
Nominare le cose, le persone e ogni pensiero che prende forma significa riconoscere e legittimare. Il mondo del lavoro fino a oggi conosceva sarte, infermiere, cuoche, maestre e segretarie –  ovvero – le donne che svolgevano le attività loro consentite.
Dall’inizio degli anni Sessanta, in seguito alla storica sentenza della Corte Costituzionale (33/1960) scaturita dal ricorso promosso da Rosanna Oliva in merito al divieto di accesso per le donne ai concorsi per le pubbliche carriere (nel caso di specie si trattava della carriera prefettizia), le cose sono cambiate.
Oggi le donne possono partecipare a tutti i concorsi pubblici – compreso quello nelle forze armate, ultimo baluardo caduto nel 1999 – e scegliere professioni e attività un tempo precluse. Perché allora la lingua parlata non segue l’evoluzione dei tempi declinando al femminile i vocaboli come previsto dalla grammatica italiana?
Come mai una donna che esercita l’avvocatura non è chiamata avvocata ma avvocato? Per quale ragione negare la sua identità? Quale motivazione anima le donne che si autodefiniscono usando un termine maschile? Architetta, avvocata, ingegnera? Sono parole cacofoniche e poi ci sono cose più importanti a cui pensare! Non è la lettera A che fa di me una professionista, sono un avvocato! Si è sempre detto così perché adesso bisogna cambiare le cose?
Queste sono alcune delle obiezioni che più spesso ascoltiamo e leggiamo sul perché della resistenza a un corretto uso della lingua italiana. Sensibilizzare le persone ad un uso non discriminatorio della lingua è importante poiché aiuta a far riflettere sui gap da colmare, primo tra tutti quello salariale.
Qual è il motivo per il quale a parità di condizioni di competenza, anzianità ed esperienza gli uomini sono pagati più delle donne? Siamo ancora al punto di dover far credere che il prestatore d’opera sia un uomo per veder riconoscere professionalità e meriti?
Presentarsi come avvocato, ingegnere, medico, architetto vale più che farlo come avvocata, ingegnera, medica e architetta? Se nel caso di sindaca, ministra e assessora gli avversari del corretto uso della lingua italiana si appellano al maschile usato in definizione del ruolo questa obiezione viene meno in ambiti come quello professionale. Se non c’è bisogno di far inutili distinzioni perché, dunque, non chiamare un uomo che esercita l’attività di insegnante professoressa?
La lingua italiana è chiara: si declina al maschile e al femminile, il genere neutro non è previsto così come non è previsto il maschile inclusivo. Nella scelta dell’uso di una vocale, archiettA, avvocatA, ingegnarA, è racchiuso un dibattito foriero del cambiamento. Visibile nella lingua vuol dire visibile nella società, quello che non si nomina non esiste, è rifiutato, rimosso, negletto.
Riconoscere la presenza delle donne in ambiti diversi da quelli storicamente conosciuti, il focolare domestico e una parte marginale e non apicale del mondo del lavoro, significa mettere in discussione un modello socio-economico- culturale. Se sono solo parole perché tanta resistenza all’uso del femminile? Perché le parole hanno la forza di cambiare il mondo, la storia ce l’ho insegna, esse sono potenti e vanno usate per il messaggio dirompente che contengono.
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