Le disobbedienti/ Chiamanda Ngozi Adichie, scrittrice femminista (felice) africana. Che non odia gli uomini e ama mettere il rossetto per sé

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Il femminismo e l’identità, due temi che da anni studio con passione, si intrecciano nel lavoro di Francesca Giommi “Affondare le radici senza scrollare via la terra. Chiamanda Ngozi Adichie e il continente-mondo” pubblicato da Aras edizioni.
L’autrice, ricercatrice in letterature postcoloniali anglofone, africane e di migrazione, presenta un’analisi dell’opera di Chiamanda Ngozi Adichie – scrittrice, femminista e icona contemporanea nata in Nigeria e trasferitasi negli Stati Uniti – per affrontare il tema del post colonialismo attraverso la narrazione.
Per abbandonare gli stereotipi è necessario ricercarne le ragioni, porsi domande, osservare, leggere ed ascoltare e Giommi conduce chi legge attraverso le opere di Adichie presentandole con il corredo degli echi di altri autori/trici e voci del panorama letterario africano. I piani di lettura sono diversificati e rispecchiano la complessità della costruzione identitaria di un continente all’indomani della fine del colonialismo e il modo nel quale l’Europa e gli Stati Uniti lo percepiscono.
Adichie scrive e testimonia un femminismo intersezionale in cui si coniugano genere, etnia, classe, religione e provenienza geografica, un magma nel quale le donne non sono costrette ad abbandonare la propria femminilità e guardano al femminismo di matrice occidentale come paternalistica offerta di farsi portavoce di un sentimento, delle necessità e una identità all’Occidente sconosciuta: «La Nigeria è uno dei paesi africani in cui più evidente è il rifiuto del femminismo occidentale e in cui la ricerca di strade alternative ha mosso i passi più significativi. Tra le principali accuse, talvolta enfatizzate, mosse al femminismo di stampo occidentale c’è quella di essere un movimento elitario rivolto a donne colte e benestanti, e soprattutto quella di avere un fine separatista. […] Alice Walker, autrice de Il colore viola, ha coniato negli anni Ottanta il termine di “womanism” indicando con esso un movimento che pur non negando la comune radice con il femminismo bianco, se ne distacca in almeno due punti: il superamento delle discriminazioni sessuali volto alla salvezza dell’intera umanità, e l’eliminazione di ogni altro tipo di discriminazioni etniche, socio-economiche e culturali».
Le donne nigeriane sfuggono al patriarcato affermatosi con il colonialismo e l’imposizione di una religione lontana dalla propria affermando i diritti che tutte le donne, in ogni parte del mondo, lottano per vedere riconosciuti perché – e qui si inserisce un altro piano di lettura – è necessario opporsi alla affermazione di una storia unica e omologante che perpetua le asimmetrie.
Se esiste una sola versione che viene ripetuta all’infinito questa, pur essendo parziale, sbagliata e/o falsa- finirà per essere accettata come la sola possibile: se alle donne fin da bambine viene inculcata l’idea che il fine ultimo della loro esistenza sia rappresentato dal matrimonio e l’accudimento familiare mentre il lavoro, la carriera e l’assunzione di ruoli nella sfera pubblica sono esclusivo appannaggio degli uomini, allora, le bambine cresceranno convinte di ciò e l’intera società assumerà questa come unica verità e opzione di vita possibile.
Affinché le cose cambino è necessario che tutti partecipino al processo di cambiamento culturale e – quindi – dovremmo essere tutti, come afferma Adichie, femministi: donne e uomini. «Non dire mai a tua figlia che non può fare una cosa o che la deve fare “perché sei una femmina”. “Perché sei una femmina” non è mai una buona ragione. In nessun caso» è una citazione tratta dal suo libro “Dovremmo essere tutti femministi” pubblicato nel 2014.
Pari importanza dei generi e reciprocità del metro di valutazione nei rapporti uomo/donna sono i pilastri del suo pensiero. A chi le obietta che le sue idee sarebbero frutto di un riflesso coloniale e avulse dal bagaglio culturale africano ribatte coniando la definizione: «Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti per Sé e Non per Gli Uomini» sottolineando un aspetto di cui ho, spesso, scritto: la consapevolezza di sé passa attraverso il modo di vestirsi.
Negli anni Ottanta e Novanta le donne occidentali che lavoravano in contesti maschili tendevano a mimetizzarsi optando per completi pantaloni e giacca, scarpe basse e trucco minimal per mantenere un basso profilo, tra i trenta e i quarant’anni molte tra noi hanno fatto propria la lezione di Marisa Bellisario e -sostenute dall’autostima sviluppata nel tempo- hanno scelto di non rinunciare alla propria femminilità portando nel luogo di lavoro quella parte di identità fino ad allora celata. Su questo terreno si sviluppa un ulteriore piano di lettura del testo, quello della costruzione del processo identitario. Il modo in cui una donna acconcia i propri capelli racconta molto di sé e dei suoi stati d’animo, una capigliatura afro intatta nella sua naturalezza o addomesticata ha una connotazione profonda: «Come molte autrici da tutto il continente e dalla diaspora, anche Adichie in Americanah elegge i capelli afro a significanti di una differenza etnica, razziale e culturale a attraverso la loro politicizzazione suscita nel romanzo questioni di identità e appartenenza, inclusione ed esclusione, elevando dunque un’apparentemente triviale dimensione estetica a questione di geopolitica identitaria».
Anni fa scrissi una antologia di racconti le cui protagoniste di età, estrazione sociale e carattere diverso dialogando con il proprio parrucchiere mettevano a nudo la propria anima e i turbamenti scegliendo di cambiare colore, taglio e foggia per rendere evidente, al mondo, una intervenuta cesura con il passato, un cambiamento intervenuto e scelto nella propria vita che necessitava di un segno esteriore. I capelli afro denunciano una provenienza culturale che impone una riflessione sulla propria identità e sulle dinamiche dei processi di integrazione così come lo furono le crocchie strette delle immigrate italiane negli Stati Uniti nel secolo scorso.
Ifemelu, la protagonista di Americanah, dopo oltre un decennio lontana dalla Nigeria sente di voler tornare nel suo paese d’origine: «La Nigeria diventò il luogo in cui lei avrebbe dovuto essere, l’unico posto dove avrebbe potuto affondare le radici senza il bisogno costante di tirarle fuori e scrollare via la terra».
Lasciare il proprio paese è lacerante, vivere a cavallo tra due culture può essere arricchente ma logorante se vissuto con la costante necessità di preservare la propria identità da una mescolanza che ne mina le fondamenta, Achille Mbembe ha coniato il termine afropolitanismo, africano+cosmopolitismo, per descrivere quello che definisce “interconnessione di mondi” e “una geografia di circolazione e mobilità” che per alcuni significa andare al superamento di una concezione vittimistica del continente africano per assumere un punto di vista in cui la contaminazione è apertura, circolarità e scambio.
Nel 2005 Taiye Selasi, londinese di nascita, cresciuta a Boston e con origini ghanesi e nigeriane scrive: «L’afropolitano si deve formare un’identità almeno tridimensionale: nazionale, razziale, culturale – con tensioni sottostanti».
Definire e ri-definire la propria identità quando si emigra in un diverso contesto culturale è un’operazione complessa e mai indolore che mette in discussione ogni aspetto di sé stessi e della propria storia personale e collettiva: «In un’inestricabile fusione di locale e globale, passato, presente e futuro, queste identità (e comunità) diasporiche trasversali e sovranazionali, che hanno fatto dell’ibridismo e della transculturalità la loro strategia di sopravvivenza, di cui Chimamanda pare essere diventata la paladina, dimostrano tuttavia un persistente attaccamento alle origini (in immaginari sincretici prolifici e creativi, come quello di Chris Abani che si definisce un “igbo globale” e di Bayo Akomolafe con il suo ruolo di “intellettuale transpubblico youruba)…».
Cosa ci definisce come persone nei diversi momenti della nostra vita e come costante? Quanto siamo consapevoli del valore che attribuiamo a un bagaglio culturale condiviso con le comunità di origine e di appartenenza? Che significato ha per noi – e nell’immaginario collettivo – il femminismo all’interno del nostro Paese e negli altri? Sono domande a cui il saggio scritto da Giommi fornisce interessanti risposte da un punto di vista poco frequentato nella quotidianità, domande che tutte/i dovremmo porci perché la disparità di genere e il processo di costruzione identitaria riguardano tutte/i e l’Africa non è così lontana e aliena come crediamo.
 ©Riproduzione riservata

IL LIBRO
Francesca Giommi
Affondare le radici senza scrollare via la terra. Chiamanda Ngozi Adichie e il continente-mondo
Aras edizioni
Pagine 133
euro 16

L’AUTRICE
Francesca Giommi è dottore di Ricerca in Letterature postcoloniali, africane e di migrazione. Collabora con le pagine culturali de L’Indice e Il Manifesto. Per l’Espresso ha curato un reportage sul Ghana. Quando non è in viaggio, descrive a visitatori da tutto il mondo, le bellezze del suo Montefeltro. Con Aras Edizioni ha pubblicato Il tesoro degli Ashanti. Viaggio in Ghana, (finalista al Premio Letterario Rai “La Giara” per autori emergenti e al Premio “L’Albatros” per la Letteratura di Viaggio), con cui questo romanzo si pone in continuità.

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