«E se le donne parlassero di lavoro come si parla di sesso in Sex and the city?». lo scrivevo in un saggio pubblicato nel 2010, adesso mi domando: e se le donne parlassero di potere come si parla di sesso in Sex and the city? Per trovare valide considerazioni che mi aiutassero nella ricerca di risposte ho letto “Rompi il soffitto di cristallo! Vite straordinarie di donne che ce l’hanno fatta”, scritto per Aboca da Julia Gillard – ventisettesimo primo ministro dell’Australia (2010- 2013) – e Ngozi Okonjo-Iweala ministro delle Finanze della Nigeria (2003-2006 2011-2015) e direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Qualcuno, anni fa, teorizzava che ci fosse una gradualità del fenomeno da distinguere in soffitto di vetro – più facile da infrangere – e soffitto di cristallo. Le autrici distinguono tra labirinto di cristallo, riferendosi alle difficoltà che le donne incontrano partendo dal livello base, scogliera di cristallo quando sono chiamate in ruoli decisionali nei momenti difficili al posto di uomini normalmente incaricati in momenti stabili e soffitto di cristallo quando vengono frenate al secondo posto non riuscendo a raggiungere la vetta.
Gillard e Okonjo-Iweala hanno scelto alcuni temi e ne hanno discusso con otto donne con esperienze politiche e di leadership: Jacinda Ardern, Michelle Bachelet, Joyce Banda, Hillary Rodham Clinton, Christine Lagarde, Teresa May, Ellen Johnson Sirleaf ed Erna Solberg. Un primo interessante test sarebbe domandarsi: quante di loro conosciamo? Hillary Rodham Clinton, Christine Lagarde e Teresa May sono nomi ai quali i media italiani hanno dedicato spazio.
Chi sono le altre? Jacinda Ardern è il primo ministro della Nuova Zelanda in carica dal 2017, Michelle Bachelet è stata presidente del Cile (2006-2010 2014-2018) prima donna ad essere eletta nel suo paese e prima direttrice di UN Women (2010-2013), Joyce Banda è stata presidente del Malawi (2012-2014), seconda donna ad assumere un ruolo di leader nazionale in Africa, Ellen Johnson Sirleaf è stata presidente della Liberia (2006-2018) e premio Nobel per la Pace nel 2011 ed Erna Solberg è stata primo ministro della Norvegia (2013-2021), seconda donna ad essere eletta primo ministro.
Continenti diversi, età differenti, esperienze e percorsi di vita singolari. Alcune tra loro, le meno fortunate, sono state arrestate, detenute, torturate, costrette all’esilio e sono scappate da un marito violento. Tutte, autrici comprese, si sono confrontate su otto ipotesi comparando le rispettive esperienze per mostrare il cammino fatto e quello ancora da percorrere ponendosi l’interrogativo di come poter meglio sostenere le donne che vogliono impegnarsi in politica.
Come si accede ai luoghi decisionali? I percorsi possibili sono diversi ma ci sono delle costanti, la prima di queste è: costruire reti relazionali. Gli uomini lo fanno da sempre, le donne no. È un argomento che mi sta molto a cuore, ci lavoro da anni e ho fondato un network nazionale perché penso che le donne scegliendo di non investire tempo nella costruzione di relazioni rinuncino ad opportunità professionali e personali. Theresa May nel 2005 ha fondato Women2Win per sostenere le donne che vogliono impegnarsi in politica.
«Questo libro non è basato sull’idea che ci siano differenze intrinseche e biologicamente determinate tra il modo in cui uomini e donne amministrano il potere. Crediamo, invece, che nella misura in cui ci sono variazioni, esse sorgono perché, in ogni fase della vita, uomini e donne sono socializzati e stereotipati in modo diverso […] pensate quante volte chi organizza i giochi al parco giochi è stato descritto come un “leader naturale” se è maschio e una “signorina prepotente” se è una femmina».
Il doppiopesismo è sempre in agguato e di esempi da fare ce ne sarebbero molti, troppi. Un confronto tra donne di paesi e culture diverse evidenzia differenze ma aiuta, anche, a far emergere aspetti comuni e trasversali.
Ogni lettrice/ore troverà facile riconoscersi in alcuni di quelli affrontati, nel mio caso è stato vero per l’insegnamento materno ricevuto circa la possibilità di poter diventare chiunque avessi voluto se mi fossi impegnata, fossi stata tenace e avessi sviluppato competenze coltivando il mio talento.
C’è solo una notazione da fare: mia madre me lo diceva, quasi cinquant’anni fa, in una città meridionale d’Italia e la maestra, quando espressi questo pensiero, la convocò con somma urgenza. Mia madre era americana, per lei non esistevano lavori da uomo e lavori da donna né ruoli sociali di genere, nella gestione domestica tutti dovevano fare quel che c’era da fare.
Il senso di spaesamento che ho vissuto è quello descritto in alcune pagine del libro in cui le leader dicono di essere cresciute in famiglie nelle quali hanno ricevuto lo stesso insegnamento, a nessuna di loro è stato mai detto che non avrebbero potuto far qualcosa perché erano femmine. Ma, scrivono le autrici, attenzione a un tranello che ci aspetta dietro l’angolo, i ragazzi che mostrano attitudine alla leadership vengono riconosciuti come talentuosi solo in virtù di tale inclinazione, mentre alle ragazze, viene insegnata l’importanza di comportarsi responsabilmente: per i primi ci si sofferma sul carattere, per le seconde si valuta il modo in cui agiscono.
Come superare l’idea che se un uomo parla delle sue aspirazioni politiche verso una posizione di potere se ne ammira l’ambizione e se a farlo è una donna viene considerata una persona aggressiva, arrampicatrice, di cui diffidare? Forse è un po’ stronza… questa è una delle otto ipotesi considerate e discusse.
Molto interessante è l’analisi del comportamento delle leader quando consapevoli di essere giudicate con un metro penalizzante perché donne: «L’esasperante rovescio della medaglia di questa discriminazione è che un uomo educato e disponibile riceverà un segno di spunta, mentre una donna non trarrà alcun beneficio dallo stesso comportamento. La ricerca ha dimostrato che una donna gentile è solo conforme alle aspettative, quindi il suo comportamento non genera una reazione positiva, mentre un uomo otterrà una buona risposta perché si pensa che è andato oltre le normali norme comportamentali».
Questo è il motivo per il quale trovandomi nel bel mezzo di una riunione in cui un uomo annunciò che sarebbe andato via prima per non perdersi il saggio scolastico della figlia notai che tutti i presenti – donne comprese – lo elogiarono e venne da domandarmi se a fare lo stesso annuncio fosse stata una donna la reazione sarebbe stata la medesima, oppure, alla mente si sarebbe affacciata l’idea che era un comportamento professionalmente poco affidabile di chi, non sapendo organizzare il proprio tempo, penalizza se stessa e i propri colleghe/i.
Il doppio standard viene in rilievo anche in un altro degli ambiti indagati, una delle ipotesi di cui leggiamo si riferisce al modo in cui le leader si abbigliano e si presentano in pubblico. Che i/le giornaliste si soffermino sulla descrizione della toilette di una politica e non di un politico è mal costume imperante al punto che Hillary Clinton scrive: «Non andavi in giro con abiti senza maniche o scollati. Forse, ripensandoci, era sciocco, ma indossavamo tailleur con camicette bianche, con nastrini legati intorno al collo come se fosse una falsa cravatta. Eppure era quello che facevi perché sapevi che dovevi farlo per essere accettata come professionista. Ci siamo adeguate altrimenti l’avremmo pagata».
Le autrici, dopo aver sviscerato l’argomento, commentano così: «Ma in generale, l’apparenza è la cosa meno interessante degli esseri umani. Non ti dice nulla su ciò che è nelle loro teste, nei cuori o nelle anime».
La penso diversamente, il modo in cui ci vestiamo racconta molto di noi e questa idea è fortemente radicata nella cultura italiana per la quale la ricerca del bello è gesto ontologico quotidiano che costituisce parte dell’eredità greca con cui abbiamo assimilato l’importanza del canone estetico.
Agli inizi degli anni Novanta, subito dopo la laurea, ho vissuto la stessa esperienza omologante descritta da Hillary Clinton: indossavo completi pantalone e giacca con spalline rinforzate a sottolineare un taglio maschile grigi o blu, camicette monocromatiche in tinta, scarpe basse e taglio di capelli d’ordinanza.
Poi, però, con il passare degli anni si raggiunge quello stato di grazia in cui la personalità è strutturata e possiamo abbandonare gli stereotipi perché sostenute da sufficiente fiducia in noi stesse per affermare la personalità, ce lo ha insegnato Marisa Bellisario che in un settore in cui era l’unica donna non ha mai rinunciato al proprio stile e alla passione per la moda.
Un altro argomento affrontato nel libro che mi vede coinvolta è la consultazione delle statistiche sul gender gap. Gli studi e la professione mi portano a valutare con attenzione i dati statistici e interpretarli anche alla luce della metodologia prescelta per la determinazione delle aree di indagine e dei parametri stabiliti, come chiunque legga gli indici internazionali in materia di gender gap ho visto sempre svettare la Finlandia ma, lo scorso settembre, ho avuto modo di contestualizzare i dati.
A Helsinki per un progetto Erasmus sulla parità di genere insieme con altri cinque paesi europei ho avuto modo di constatare sul campo le modalità di questo primato che si rinnova di anno in anno. Ebbene mi si sono sollevati diversi interrogativi il primo dei quali è: se la Finlandia ha un così alto tasso di donne che ricoprono ruoli pubblici decisionali come mai la qualità della vita e i livelli occupazionali delle donne non sono migliori, soprattutto alla luce del numero di abitanti di gran lunga inferiore a quello di molti altri paesi?
Uno dei pregi del libro, andando avanti nella lettura, è quello di sollevare dubbi e sollecitare interrogativi per spingere chi legge ad approfondire. Altrettanto interessante è un’altra considerazione, una considerazione che ritengo strategica al punto di avervi costruito un corso di formazione ad hoc, che riguarda la differenza con cui gli uomini e le donne si propongono sul mercato del lavoro negoziando le condizioni.
Le seconde si propongono solo quando più che certe di rispondere a tutti i requisiti richiesti e fondano il rapporto professionale sulle aspettative nella ferma convinzione che se le loro prestazioni saranno positive ciò verrà riconosciuto e premiato. Niente di più insano e lontano dalla realtà. Il mercato del lavoro non funziona così e neanche le relazioni di potere.
I rapporti si negoziano sottoscrivendo condizioni chiare e vincolanti, si costruiscono reti relazionali che servono a sviluppare sinergie, opportunità e appoggio e si afferma un proprio stile di leadership. Sembra facile ma, in realtà, si cammina in bilico come funambole – a volte senza nessuna rete di protezione – cercando costantemente un punto di equilibrio perché: «Apparentemente, la superdonna è un modello alienante, così come la donna super onesta che parla con franchezza dei problemi che ha incontrato. Questo è il rompicapo del modello di ruolo».
Cresciamo con una dissonanza cognitiva, madri, zie e modelli di ispirazione ci dicono che possiamo diventare chiunque vogliamo e poi ci scontriamo con una realtà in cui avviene tutt’altro.
Il libro si conclude con dieci lezioni-spunti-suggerimenti e la consapevolezza che per cambiare le cose è necessario che gli uomini diventino parte attiva del processo culturale.
La sfida che le autrici lanciano è: non spaventare le donne che vogliono intraprendere percorsi di impegno politico ma non nascondere le difficoltà.
Nel saggio che scrissi nel 2010 argomentavo, dati alla mano, che l’assenza di un maggior numero di donne nel mercato del lavoro si traduceva in una mancata crescita del PIL dando luogo a un lusso che non potevamo permetterci, le autrici dimostrano i motivi per i quali un maggior numero di donne in ruoli politici decisionali è cosa fondamentale per un miglioramento della qualità della vita ad ogni latitudine.
©Riproduzione riservata
IL LIBRO
Julia Gillard e Ngozi Okonjo-Iweala,
Rompi il soffitto di cristallo! Vite straordinarie di donne che ce l’hanno fatta,
Aboca
Pagina 352
euro 19,50
LE AUTRICI
Ngozi Okonjo-Iweala è la direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), è la prima donna – e la prima africana – a ricoprire questo ruolo. Si è laureata ad Harward e ha conseguito un master in economia al MIT. È stata ministro delle Finanze del governo nigeriano dal 2003 al 2006 e dal 2011 al 2015. Nel 20220 è stata nominata inviata speciale dell’unione Africana per la mobilitazione del supporto economico internazionale per la lotta del continente al Covid-19.
Julia Gillard è stata il ventisettesimo primo ministro dell’Australia, ruolo che ha ricoperto dal 2010 al 2013.
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