Un atto d’amore verso la propria città e le donne della famiglia, una ricerca delle radici identitarie, un romanzo ricco di temi sui quali riflettere. “I cancelli del tempo. Romanzo di una saga familiare tra Torino e Napoli”, scritto da Maria Gargotta per D’Amico editore, è un viaggio che inizia nel1898 e finisce nel 1943 in cui l’autrice ricostruisce la storia di una donna forte, determinata e indipendente: sua nonna Apollonia.
La costruzione letteraria passa attraverso uno strumento talvolta scelto da autori e autrici che vogliano introdurre il lettore/trice a una trama che rimanda a un’epoca passata di cui si recupera la memoria: il ritrovamento di un diario, un manoscritto.
La voce narrante, quella dell’autrice, entrando in una casa di famiglia ricevuta in eredità scopre, tra i libri, dei taccuini neri. Attraverso la lettura di questi si dipana il racconto ma trattasi di finzione a cui Gargotta ricorre a seguito di ricerche, rivelatesi infruttuose, sui bisnonni.
I taccuini neri di cui leggiamo sono quelli che l’autrice avrebbe, tanto, voluto trovare. La protagonista, Apollonia, nasce a Torino in una famiglia nobile e agiata da un padre autoritario e una madre infelice.
Insieme con la sorella maggiore Giuseppina crescono in un ambiente domestico in cui l’affetto è dispensato dalla tata, la madre è una bellissima e diafana presenza sullo sfondo che vorrebbero poter abbracciare e sentire vicina e non avvertire come sfuggente e fredda. Da lei, però, ereditano un tratto caratteriale, quell’indipendenza di pensiero che le contrapporrà al padre fino a generare la rottura di ogni rapporto: «Per loro due tuttavia c’era il lieve grande difetto di essere nate femmine, con quel sottile malessere dentro da custodire lontano dal mondo esterno, quasi un segno distintivo, un marchio di fabbrica, avrebbe detto il loro babbo, ma che le avrebbe rese speciali, mai scontate, mai assoggettate ai dettami di un sociale, che le avrebbe volute sottomesse e rassegnate».
Si scontrano con il padre per poter andare a lavorare nell’azienda di famiglia, consapevoli che quel ruolo è previsto esclusivamente per il fratello Carlo: «Meglio tacere? – pensò critica – No, meglio parlare. Io parlerò sempre. Ma poi che abbiamo di diverso noi femmine?» si domanda Apollonia riflettendo sul tema, ricorrente nel romanzo, della libertà. Divenuto vedovo, il padre durante un viaggio di lavoro a Napoli, si invaghisce di una ragazza dell’età delle proprie figlie e decide di trasferire l’attività d’impresa in una città che lo colpisce per la vitalità e l’allegria: «Vi era una bellezza, una grazia, pur nell’ammuina che percorreva le vie, che non poté non esserne conquistato: si era aspettato di rivedere una città, aveva trovato un sogno».
Il legame tra la città e la capacità di sognare ricorre tra le pagine a sottolineare quanto diversa fosse la filosofia di vita che Apollonia scelse di fare propria in un luogo così lontano, non solo geograficamente ma antropologicamente, da quello in cui era nata e aveva vissuto l’infanzia. Una filosofia che le entrò dentro e alla quale si affezionò mescolandosi a quella dei primi anni tramandatale dalla madre, fece sue le abitudini apprese dalla famiglia del marito senza mai abbandonare quella di indossare il cappello, tratto distintivo che mantenne e ne definiva la personalità.
Il padre, arrivato a Napoli, aveva notato anche un’altra caratteristica della città: «Tutto troppo, pensò Alberto tutto troppo, ma stranamente non era dispiaciuto».
È vero, è proprio così, a Napoli il tanto – l’assai – deborda nel troppo diventando stordente, un troppo di cui non si riesce a prendere cura e preservare, un troppo che non si può delimitare perché l’arte, i miti, le leggende, la musica, il mare, la Natura e la creatività sbocciano e si rinnovano ovunque senza sosta convivendo in un tutto senza fine.
Con il trasferimento dell’attività a Napoli Francesco, dipendente partenopeo emigrato a Torino che il padre le aveva affiancato per introdurla all’arte orafa, fa ritorno a casa alimentando il nascente amore che lo lega alla figlia del padrone.
Dietro le insistenze della nuova giovane fidanzata Alberto si vede costretto a presentarla ai figli. Tra questi Tilde, la più piccola, la accoglie calorosamente, Carlo asseconda il volere del padre mentre Apollonia e la sorella esprimono la propria ostilità. È giunto il momento che vengano date in spose agli ottimi partiti torinesi cui erano promesse fin da bambine.
Quel che Alberto non immagina, dimenticando le parole della loro madre, è che non accetteranno supinamente la sua volontà, sceglieranno un matrimonio con due operai che lo spingerà a cacciarle di casa.
Gargotta si sofferma a considerare il carattere, i sentimenti e le ragioni di quest’uomo, il suo bisnonno, riflette sulla ferma convinzione che solo a lui, capofamiglia, spettasse decidere della vita della moglie e dei figli, l’assoluta certezza che fosse una sua responsabilità cui questi dovessero adeguarsi esprimendo la gratitudine dovuta perché consapevoli della bontà della scelta operata in loro nome e per loro conto.
Il tentativo di imposizione non funzionerà con nessuno dei figli, in un caso porterà a un tragico esito, in un altro ad accettare una situazione che rivela l’ipocrisia sociale pronta a tollerare cose moralmente condannate e rifiutarne altre perché socialmente inadeguate.
L’autrice racconta la forza dell’amore che Apollonia costruisce sulla condivisione ma anche sulla capacità di accettare i limiti e le convinzioni altrui, racconta l’affetto per i figli donato ricordando quello mancatole nell’infanzia, la forza nell’affrontare le prove che la vita non le risparmia – quelle collettive come due guerre mondiali – e quelle personali e pensando non solo a sua nonna scrive: «Donne combattive, più degli uomini sui campi di battaglia; donne, silenziosamente attive nei sotterranei della storia, congiunte in una sodalità, troppo spesso senza storia».
L’affetto per i figli e la centralità della famiglia furono la stella polare perché lei, come ogni figlio/a, giurò a sé stessa che non avrebbe ripetuto gli errori commessi dai genitori. Nonostante l’amore, che mai lesinò, visse il rammarico di non poter arginare la forza distruttrice della sconfitta e dell’amarezza che, consumando, uccide.
Quando si scrive la propria storia si compie un atto di coraggio, si mette a nudo la propria anima porgendola a chi legge e Gargotta lo fa due volte: la prima raccontando della propria famiglia e la seconda raccontando di una città-mondo, Napoli la sua città. Leggiamo della malìa che questa esercita sulle persone, un incantamento millenario che non si può spiegare ma solo vivere, quella sensazione di sospensione che si avverte nelle prime ore del mattino quando la notte trascolora in alba e la foschia dondola sul mare azzurro oppure guardando il cielo che, anche quando nuvoloso, non si mostra mai – veramente – minaccioso. Una suggestione che chi vi è nato, o ha scelto come luogo in cui vivere, avvertirà trasudare dalle pagine e chi non conosce scoprirà come sottile richiamo magico che si insinua sotto la pelle.
La villetta di Villanova dove, per un certo periodo, Apollonia si trasferisce con la famiglia era un luogo ancora immerso nel verde e nella Natura, uno di quei borghi urbani fuori dal tempo che mantiene, ancora oggi, una dimensione separata dai rumori cittadini, una comunità che preserva legami e senso di appartenenza a un luogo.
Le donne di questa storia, come da sempre accade, si tramandano un patrimonio di conoscenze, sentimenti e oralità che sostanzia la loro identità. Le donne che hanno infranto le regole sociali della propria epoca, che hanno disobbedito, sono quelle che hanno aperto – con coraggio e pagandone il prezzo – nuove strade, quelle strade che noi – venute dopo di loro – abbiamo potuto percorrere.
«Ed ha perfettamente ragione: tutti, e quando dico tutti intendo anche le donne, dovrebbero studiare e forse un giorno sarà così. Per ora, mi accontento che i miei libri abbiano un tale potere, ma è che lei, cara signora, è una donna intelligente e l’intelligenza non ha sesso» sono le parole che l’autrice fa rivolgere da un professore, vicino di casa, alla protagonista.
Giulia, la madre di Apollonia disobbedì quel poco che riuscì, Giuseppina la prima figlia fino a un certo punto mentre Apollonia disobbedì fino in fondo. La foto di copertina la ritrae nel giorno del suo diciottesimo compleanno mentre fissa, con sguardo volitivo, l’obiettivo, dopo aver compiuto la scelta di rottura con il padre e aver iniziato un’altra vita.
Apollonia è sostenuta dal vigore e l’entusiasmo della giovinezza che assale ognuno nella convinzione di poter affrontare qualsiasi ostacolo la vita ci ponga innanzi. Una donna, Maria Gargotta, ne racconta altre: la bisnonna e la nonna. Una testimonianza affinché la memoria sia custodita e testimoni vite coraggiose.

©Riproduzione riservata

IL LIBRO
Maria Gargotta, I cancelli del tempo. Romanzo di una saga familiare tra Torino e Napoli, D’Amico editore
Pagine 337
euro 15

L’AUTRICE
Maria Gargotta è nata nel 1957 a Napoli, dove vive e lavora. Docente di materie letterarie al Liceo Artistico di Napoli, ha collaborato per quindici anni, come cultrice, con le Cattedre di Letteratura Italiana e di Critica letteraria all’Università “Federico II”. La critica letteraria, la poesia e la narrativa impegnano il suo tempo migliore. Ha al suo attivo, oltre a diversi saggi critici, due sillogi poetiche e cinque opere di narrativa: Mnemosyne, Oxidiana 1998, Voci al tramonto, Guida 2009, I giorni della montagna bruna, Città del Sole, 2014, I fantasmi sono innocenti, Rogiosi 2016 e Memorie d’autunno, Rogiosi 2019. È, inoltre, vincitrice di diversi premi letterari.

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