Quel che siamo e sembriamo, oh a chi importa… sono i versi di una poesia di Hannah Arendt da cui è tratto il titolo di una densa, interessante e poetica biografia romanzata scritta da Hildegard E. Keller, tradotta da Silvia Albesano e da poco pubblicata da Guanda.
L’autrice racconta la filosofa, politologa e scrittrice presentandola nella sua dimensione personale: gli amori, i viaggi, gli amici, le angosce, le paure, le speranze, i problemi di salute, l’invecchiamento. La presenta nella sua poliedrica personalità di pensatrice e poeta, narratrice di fiabe, giornalista e professoressa universitaria.
Nell’estate del 1975 Arendt torna, per l’ultima volta, dagli Stati Uniti – dove si era rifugiata in fuga dalla persecuzione nazista – in Europa, nel Ticino, dove amava andare in vacanza con il marito fuggendo dalla cappa di calore newyorkese ed è lì, nella tranquillità dei luoghi amati, che l’autrice ambienta il suo ricordare.
Ebrea tedesca, Hannah Arendt, scappa dalla Germania insieme con il secondo marito per raggiungere l’America, qui costruirà una nuova vita: «Adattarsi per appartenere, senza mai poter appartenere» rende l’idea di come si viva, da apolide prima e con una nuova cittadinanza poi, a cavallo tra due culture, due mondi molto diversi: l’Europa di inizio Novecento e gli Stati Uniti negli anni dai Quaranta ai Settanta.
Un aspetto fondante di questa diversità, che Keller illustra concretamente, si manifesta nelle aule universitarie in cui Arendt insegna. I suoi corsi si ponevano come obiettivo primario il trasferimento, alle giovani generazioni, della capacità di elaborare una propria opinione in maniera autonoma sviluppando un pensiero critico, gli studenti, invece, avevano come modello di riferimento lo schematismo, tipicamente americano, di un programma in cui sono specificati argomenti, esercitazioni e punteggi dal quale il/la docente non può discostarsi, perché il farlo viene considerato sleale e scorretto: «Professoressa che cosa c’entrano queste domande con il corso? […] Sorry, professoressa Hannah, pensa di dirci oggi come calcola i voti finali, che cosa conta di preciso per il voto e in che percentuale? Gli altri professori ce lo comunicano fin dalla prima lezione» e ancora un riferimento a una lezione tenuta in Germania anni dopo: «Per l’amor del cielo, non siate funzionari ma persone. Stop and think. Pensare non è innocuo, ma io considero più pericoloso non pensare. Siate voi a scegliere».
Una visione, dunque, invero distante da quella europea in cui chi insegna – segue sì un programma – ma lo articola calibrandolo in base all’uditorio, gli stimoli che emergono, gli accadimenti storici e sociali che intervengono nell’attualità.
Per Arendt il pensare è l’azione fondante che l’essere umano deve esercitare per essere tale, è necessario imparare a guardare le cose da una molteplicità di punti di vista senza appiattirsi su una mono interpretazione, porre domande e ascoltare le risposte è la base su cui si costruisce il dialogo, la comprensione e la possibilità di evitare lo scivolamento verso l’accettazione del totalitarismo: «Chi pensa, lo sa. Pensare vuol proprio dire rivoltare le cose e guadare anche l’altro lato».
L’imperativo esistenziale è: impegnarsi per capire. Mi domando quale analisi condurrebbe in merito alle dinamiche e la capacità pervasiva dei social media attraverso cui le moltitudini alimentano la mediocrità, la banalità e la superficialità innalzandola aI successo, li considererebbe uno strumento ideale per chi non voglia cimentarsi nell’esercizio del pensiero? Luoghi immateriali dove costruire violenza, ignoranza e sfogare aggressività? Forse sì, in ogni caso, sono certa, stimolerebbe ognuno a porsi molti interrogativi.
I suoi testi sull’assenza di pensiero critico, correlati all’analisi dei totalitarismi, sono illuminanti ma, quello che la rese famosa, sollevando lo scandalo e un’ondata di sdegnò, fu “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme” (1963) scritto in seguito al reportage realizzato come inviata al processo di un criminale nazista, Otto Adolf Eichmann, che si tenne in Israele.
«Tutti sanno che scrivi da ebrea. Gli ebrei si aspettano che tu prenda posizione, e si aspettano che ti comporti da ebrea, ovvio. […] Perché non posso essere libera?».
La tesi di Arendt è che l’uomo processato rivelò la sua vera essenza che, diversamente da come ci si aspettava, non era quella di un mostro, bensì, quella di un mediocre burocrate. Guardando l’abisso non trovò una creatura mostruosa ma un individuo che aveva seguito una prassi burocratica, le sue argomentazioni squarciarono la realtà con un pensiero scomodo.
Nelle pagine lo si legge chiaramente: «Dovete sapere una cosa, però: avere attribuito una grandezza a Stalin, Hitler, Eichmann e tutti gli altri è sempre stato anche un alibi. Chi soccombe al mostro degli abissi è molto meno colpevole di colui che soccombe a un burocrate di una mediocrità assoluta come Eichmann».
L’uscita del libro comportò la fine di alcune amicizie, insulti, minacce e interruzione di rapporti di collaborazione professionale. Quel che non le si perdonava era di aver svilito una tragedia come mai il mondo aveva vissuto, l’aver sottratto gravità e responsabilità all’immane orrore, tanto più che a farlo era lei, una ebrea da quell’orrore scappata: «Non è concepibile che il diavolo sia un piccolo contabile. O, ancor più banalmente, un buffone».
Altrettanto male fu recepita l’idea, il dubbio sollevato, che senza l’esistenza del male la vita sarebbe piatta e noiosa, davanti a una simile affermazione  – nata dall’osservazione del genere umano – le persone mostrarono orrore e disgusto scambiando per cinismo una onesta lettura del mondo.
Ho incontrato Hannah Arendt, diverse volte sul mio cammino, la sua lucidità di pensiero, la mente acuta e curiosa che andava oltre la superficie delle cose intuendone una complessità che elaborava in modo sistemico, un gigante del pensiero del Ventesimo secolo.
Ho studiato, durante gli anni universitari, i suoi testi in storia delle dottrine politiche, filosofia politica e sociologia e – in seguito – ho approfondito alcuni temi relativi allo studio della teoria politica. La ammiro per il coraggio con cui espresse le sue idee affrontandone le conseguenze, i suoi scritti sono ricchi di saggezza, conoscenza, intelligenza e appelli ad esercitare il pensiero senza adagiarsi su quello altrui, il suo lavoro è uno stimolo ad affrontare la realtà – in qualunque aspetto, anche quello che può apparire meno significativo – usando una pluralità di chiavi interpretative. L’onestà intellettuale e la coerenza furono i principi guida cui, mai, derogò. Un fulgido esempio, un modello di ispirazione.
Il racconto di Arendt che propone Keller le rende giustizia presentandola nella sua vulnerabile dimensione di essere umano che non si lascia sconfiggere dalla paura né annientare dal dolore e la tristezza, è una donna vitale, dalla straordinaria vivacità intellettuale: «Certo, solo non dimenticare quello che mi ha detto Einstein: “Pensare fa male, e niente rende più invisi che voler indurre la gente a pensare” ».
L’autrice non trascura l’interesse che la protagonista ebbe per la poesia, l’umana attività che aiuta a sopravvivere, e cita una poeta, scrittrice e giornalista presente tra #ledisobbedienti: Alfonsina Storni, anch’ella vissuta a cavallo tra due culture, quella italiana e quella argentina, agli inizi del secolo scorso.
Nella vita di Arendt l’amicizia ebbe un ruolo importante e alcuni legami, della prima e della seconda vita, furono profondi e duraturi, Keller così definisce il concetto che ne fu alla base, l’amica/o è: «[…] una persona di cui ci sta a cuore il giudizio, anche se non si tratta di una piena approvazione. Un interlocutore il cui riconoscimento è decisivo per la formazione della propria coscienza di sé. Una persona che ci preserva dal diventare indifferenti».
Walter Benjamin, Martin Heidegger, Karl Jaspers, Ingeborg Bachmann sono i legami profondi che incontriamo nella lettura. Lo stile narrativo della Keller è lieve, scorrevole, denso e punteggiato di scene che avvicinano, chi legge, alle piccole grandi cose della vita di una donna straordinaria.
Le rimembranze non sono mai noiose, nessuna delle cinquecento pagine suscita stanchezza, la storia è ariosa e ci introduce in un universo privato come fossimo invitate a una piacevole conversazione sedute con la protagonista al tavolino di quel caffè parigino degli anni Trenta in cui ci guarda dalla copertina del libro.
Aver studiato Hannah Arendt ha contribuito alla mia formazione consolidando la personale inclinazione alla lettura multidisciplinare della realtà, affronto ogni oggetto di analisi valutandolo alla luce di una lettura storica, economica, giuridica, politica, sociale e antropologica impegnandomi a rimanere lucida e lontana da pregiudizi. Ed è questa forma mentis mi ha spinta a scegliere di leggere e proporre in sequenza due novità editoriali, due libri dedicati a donne che, seguendo il proprio complesso carattere hanno disobbedito, su sponde opposte nello stesso momento storico: Hannah Arendt ed Edda Ciano. Cominciamo dalla prima…
IL LIBRO
Hildegard E. Keller
Quel che sembriamo
Guanda
Traduzione di Silvia Albesano
Pagine 517
euro 19
L’AUTRICE
Hildegard E. Keller, germanista e ispanista, docente di Letteratura tedesca all’Indiana University di Bloomington dal 2008 al 2017, oggi insegna Storytelling all’Università di Zurigo e realizza documentari, radiodrammi e testi teatrali. Ha tradotto l’opera di Alfonsina Storni (Edition Maulhelden); per molti anni, ha partecipato come critica letteraria a programmi televisivi in Svizzera, Germania, Austria. Quel che sembriamo è il suo primo romanzo. Il suo sito internet è www.hildegardkeller.ch)

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